L’industria e le società cooperative

di Andrea Pininfarina (vicepresidente di Confidustria)

Il Sole 24 Ore

Martedì 10 gennaio 2006

Caro direttore, in questi giorni si è aperta una discussione sul ruolo della cooperazione in Italia. Al di là di vicende specifiche sulle quali sono chiamate a pronunciarsi le autorità competenti, è più che mai opportuno aver avviato una riflessione di carattere generale su questo importante settore dell’economia italiana: il suo peso e il suo valore impongono la massima attenzione. Nè possiamo dimenticare che per ritrovare la via della crescita, l’Italia ha bisogno di uno sforzo collegiale.

Sembra banale ripeterlo, ma è proprio necessaria più coesione in un Paese che ama abbandonarsi alle divisioni. Per Confindustria è una scelta strategica. Nel suo primo discorso da presidente dell’organizzazione, Luca Cordero di Montezemolo il 27 maggio 2004 osservò che «noi, tutti assieme, possiamo condividere un progetto per il Paese». Noi voleva (e vuole) dire «commercio, banche, assicurazioni, artigianato, agricoltura, industria, cooperazione» di cui Montezemolo aveva appena parlato definendoli «componenti intersecate di un’unica realtà: l’impresa», che «non sono più separate da definizioni e da interessi contrastanti».

Il fenomeno cooperativo ha svolto e continua tuttora a svolgere una funzione sociale centrale in molti Paesi e in Italia in particolare. In molte economie di mercato, anche negli Stati Uniti, le società cooperative rappresentano una delle possibili forme di esercizio dell’attività di impresa.

In Italia, nel 2001, secondo i dati del censimento Istat, le società cooperative ammontavano a più di 53.300 unità e impiegavano quasi il 5% degli occupati totali, il 50% in più del 1991. Il dinamismo delle imprese cooperative è ancora più evidente negli ultimi trent’anni: il numero delle imprese e degli addetti è cresciuto a un tasso medio superiore al 5% tra il 1971 e il 2001.

Il rispetto per tutti i settori e tutti i tipi di impresa che concorrono alla vita economica è un punto irrinunciabile. La cooperazione è per l’Italia un patrimonio ideale e anche materiale: quale danno avremmo tutti noi se venisse a mancare il suo apporto all’agricoltura o alla grande distribuzione!

Anche queste considerazioni possono apparire ovvie. Ma a volte è bene soffermarsi su quello che dice la stessa Costituzione. L’articolo 45 «riconosce la funzioen sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». Lo scambio mutualistico, cioè l’impegno diretto di tutti i soci di una cooperativa alla realizzazione dell’oggetto sociale individuato e definito, assume quindi all’interno della Costituzione un rilievo speciale. Proprio per la «funzione sociale» assolta, la legge prevede per le cooperative un trattamento fiscale più favorevole rispetto alle altre imprese.

Gli interessi dei soci di una società cooperativa, che ha tipicamente finalità mutualistiche, sono massimizzati non tanto attraverso la remunerazione del capitale investito, quanto tramite la soddisfazione di bisogni sociali (consumo di beni e servizi a condizioni più vantaggiose, servizi di assistenza, servizi finanziari, acquisto di immobili a prezzi contenuti, ecc.).

La più bassa imposizione fiscale deriva pertanto dalla diversa natura delle cooperative e non dalla mancata distribuzione dei profitti. Altrimenti sarebbe logico prevedere una minore tassazione anche per tutte le altre imprese che decidessero di non distribuire utili.

Lo scambio mutualistico in rapporto all’oggetto sociale è dunque alla base del giusto trattamento di favore fiscale accordato a un’impresa. E’ evidente, di conseguenza, che allontanarsi dall’oggetto sociale significa compiere una scelta possibile ma comporterebbe la rinuncia a far parte del mondo della cooperazione e ai benefici collegati.

In pratica, le cooperative nate per gestire i supermercati devono continuare a gestire i supermercati per poter godere ancora di un trattamento fiscale privilegiato. Lo scambio mutualistico alla base della nascita delle cooperative sarebbe superato nel caso dell’espansione in campi con finalità estranee a quelle originarie.

Non sono possibili invasioni di campo ma non ci sono dunque settori tabù per la cooperazione. Analogamente, la cooperazione può certamente esercitare il credito nei modi propri, cioè il credito cooperativo.

Nessun problema si presenta se una società cooperativa si espande in un altro settore attraverso la costituzione di una cooperativa, con chiare ed esplicite finalità mutualistiche. Si pensi a una cooperativa sociale che aggiunga alla propria attività originaria la fornitura di un nuovo servizio per i proprio soci. Di ben altra natura sono i problemi che si pongono quando una società cooperativa decide di acquisire il controllo di un’impresa di capitali, di una società per azioni, ad esempio, che non abbia natura mutualistica.

Il dibattito in corso dovrebbe consentire la massima chiarezza anche perché Confindustria si augura che le cooperative crescano continuando a svolgere la loro funzione sociale: perciò senza acquisizioni estranee al loro spirito originario e non compatibili con trattamenti fiscali di favore ovvero, come rilevato da autorevoli uomini politici e studiosi, discutibili sotto il profilo cooperativo. Potrebbe anche essere meglio che la stessa legge precisasse i limiti all’acquisizione di partecipazioni in società di capitali da parte delle cooperative. L’evoluzione dello scenario economico comporta indubbiamente anche un’evoluzione del modo di vivere della cooperative. E’ un tema diventato ineludibile. Sono perciò molto apprezzabili le affermazioni di esponenti del Centro-sinistra che hanno ammesso il ritardo verificatosi nell’affrontarlo. E si sono appena dichiarati a favore del rinnovamento delle forme di governance delle cooperative e della «ridefinizione» della loro missione.

Le caratteristiche tipiche di una società cooperativa sono sintetizzate dal principio “una testa un voto”: nell’assemblea ogni socio esprime un voto a prescindere dalla quota proprieraria detenuta. Si tratta di un principio democratico che si associa al mutualismo, ma rende peculiare il governo societario delle cooperative stesse.

E’ plausibile che in una piccola cooperativa di consumo il principio “una testa un voto” si associ a un controllo assiduo da parte dei soci sui dirigenti della società stessa, che sono spesso gli stessi soci. Ma in una società cooperativa nella quale è massima la diffusione della proprietà, con migliaia di soci, il principio di “una testa un voto” può costituire un ostacolo al controllo della gestione da parte dei soci stessi. Tale principio democratico, infatti, preclude la possibilità di raccolta dei diritti di voto, quindi la formazione di un azionista di riferimento in grado di valutare il management e di evitare eventuali condotte abusive. D’altro lato, per lo stesso motivo, il controllo di una cooperativa non è contendibile. Invece nelle società per azioni aperte, è il mercato con le sue azioni ad allineare di volta in volta gli interessi del management a quelli dei soci.

Un migliore modello di gestione delle cooperative consentirà di sapere con precisione quali sono i comportamenti corretti da tenere in sintonia con la «funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata» riconosciuta dalla Costituzione.

Eliminata la possibilità di snaturare la missione mutualistica con operazioni estranee e non compatibili, le cooperative potrebbero guardare con maggiore tranquillità alla propria crescita. E contribuire così alla crescita più generale dell’economia italiana.

Questo contributo è necessario. E Confindustria, come scrivevo all’inizio, lo considera parte importante del cammino comune. L’apporto delle cooperative è nell’indicazione richiamata dalla Costituzione: la missione mutualistica. Del resto la recente riforma del diritto societario fa riferimento esplicito alla mutualità. Ci attendiamo dunque che le cooperative svolgano il loro rilevante compito specifico, dando un contributo originale al quale l’intera economia italiana non deve rinunciare. Così, tutti insieme, ognuno per la propria parte, possiamo lavorare per rendere più competitivo il Paese. Un Paese, purtroppo, che ha ancora grande bisogno di più libertà economica e meno presenza dello Stato in economia. Sappiamo che la mano pubblica è troppo soffocante. Lo conferma il fatto che l’Italia è precipitata dalla ventitreesima posizione del 2004 alla quarantaduesima del 2005 nella classifica mondiale della libertà economica dell’Heritage Foundation-Wall Street Journal. Risalire deve essere l’impegno di tutti